aprile, Liturgia

22 Aprile 2018 – IV Domenica di Pasqua (B)

Dagli Atti degli Apostoli (4,8-12) – In nessun altro c’è salvezza: Il discorso di Pietro al Tempio, dopo la guarigione del paralitico, suscita l’indigna-zione dei capi del Sinedrio che non vogliono che si insegni nel nome di Gesù. Inizia, così, la persecuzione alla comunità cristiana che porterà alla dispersione dei credenti e alla predicazione ai pagani. Anche davanti agli anziani Pietro ripete i medesimi concetti del discorso tenuto al Tempio: la guarigione operata nel nome di Gesù, il Cristo, crocifisso dai Giudei e risuscitato da Dio Padre, il Salvatore promesso. Questa proclamazione è un invito alla conversione, come viene più chiaramente espresso nel discorso al popolo, dato che si è agito per ignoranza. L’agnoia (ignoranza), è un tema riportato più volte da Luca nei discorsi tenuti durante le missioni, non sminuisce la colpa dei Giudei, ma spiega il motivo per cui Dio continua ad offrire loro la possibilità del pentimento.

Dal Salmo 117 (118) – La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d’angolo: «È manifesto per tutti che questo è detto del Cristo, perché lui stesso ha citato questa profezia: Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori avevano scartato è diventata capo d’angolo? (Mt 21,42). I costruttori sono i giudei, i dottori della legge, gli scribi e i farisei che lo rifiutarono. Non diciamo con ragione noi che sei un Samaritano e hai un demonio? … Costui non è da Dio, ma seduce la folla. Ora questo riprovato si è manifestato talmente approvato che è diventato testata d’angolo. Non una pietra qualunque è atta ad essere pietra angolare: è necessaria la pietra scelta, capace di unire due muri. Il profeta dice qui: respinto dai giudei e tenuto in nessun conto, è apparso talmente ammirabile che non solo si integra all’edificio, ma è lui che riunisce e tiene insieme i due muri. Quali muri? I credenti, giudei e gentili» (G. Crisostomo).

Dalla prima lettera di san Giovanni Apostolo (3,1-2) – Vedremo Dio così come egli è: Il concetto di figli di Dio è fondamentale nella dottrina giovannea. Il dono della figliolanza ci è accordata grazie a Cristo al quale rimaniamo uniti nella fede. In questo brano siamo di fronte ad una esortazione: se siamo figli di Dio, dobbiamo vivere da figli, infatti, non si tratta solo di una realizzazione escatologica, ma di una realtà presente che arriverà alla sua perfezione quando lo contempleremo nella gloria in una maniera più intima.

Dal Vangelo secondo Giovanni (10,11-18) – Il buon pastore dà la propria vita per le pecore: Al tempo di Gesù, le pecore del villaggio erano custodite tutte in un unico ovile: ogni mattina, il pastore faceva uscire le proprie per portarle al pascolo. La scena narrata da Gesù era, dunque, familiare agli ascoltatori: Gesù non forza la fede dei suoi, la sua parola ha autorità perché è la voce del padrone che ama le pecore e dà la vita per loro. Il brano è in relazione con la guarigione del cieco nato dove i capi dei Giudei si sono fatti giudici dell’uomo cieco, mentre Gesù se ne è preso cura donandogli la vista.

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Approfondimento

Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me – Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni, Vol. II, EDB): La conoscenza di cui parla Gesù, in questo passo, deve essere intesa in senso biblico, come scambio di amore profondo (cfr. Am 3,2; Os 6,6; 13,4; Ger 22,16; Sal 37,18; 139,1-6). Essa quindi non consiste in una nozione intellettiva, ma in una penetrazione nell’essere della persona conosciuta.

Siamo perciò nella sfera del coinvolgimento esistenziale. Si tratta della conoscenza che porta all’unione personale, alla comunione perfetta.

Non a caso la conoscenza reciproca tra il Verbo incarnato e le sue pecore vuol motivare e spiegare l’amore profondo del buon Pastore per il suo gregge, in antitesi con l’atteggiamento del mercenario, il quale non si preoccupa affatto della sorte delle pecore (Gv 10,13-15). Gesù conosce i membri del popolo di Dio, come conosce esistenzialmente il Padre. Il buon Pastore ha tale conoscenza vitale delle sue pecore (Gv 10,27), simile a quella dei discepoli verso Dio (Gv 14,7; 17,3) e che il mondo, nemico della luce e della verità, non può possedere (Gv 16,3; 17,25).

La conoscenza mutua tra il Verbo incarnato e il suo gregge trova il termine di paragone e il fondamento nel rapporto d’amore tra il Padre e il Figlio (Gv 10,15). Tra queste due persone divine vige il più profondo scambio di vita e di conoscenza esistenziale. Per tale ragione Gesù può proclamare di conoscere bene Dio, a differenza dei suoi nemici che lo ignorano (Gv 7,28s; 8,19.55).

Il buon Pastore conosce così intimamente le sue pecore, le ama in modo tanto intenso, da deporre la sua anima a favore di esse (Gv 10,15). Egli sacrifica la sua vita con estrema libertà per la salvezza del suo gregge; ai suoi amici offre questa suprema prova di amore (Gv 15,13). Ora, il discepolo deve prendere esempio da questo modello divino nel dono di sé ai fratelli: «In ciò abbiamo conosciuto l’amore: egli per noi ha deposto la sua anima, anche noi perciò dobbiamo deporre l’anima per i fratelli» (1Gv 3,16).

A questo punto, il pensiero del buon Pastore corre alle pecore che non sono del recinto giudaico: anch’esse saranno conquistate al suo amore e così ci sarà un solo gregge e un solo pastore (Gv 10,16).

L’uso dei verbi al futuro, in questo passo, invita a pensare a un tempo posteriore, dopo che Gesù sarà morto per radunare in unità i dispersi figli di Dio (Gv 11,51s). In realtà il Verbo incarnato vuole salvare non solo i circoncisi, ma tutta l’umanità, tutto il mondo (Gv 3,16s; 4,42; 12,47).

L’ascolto della voce del buon Pastore, da parte delle pecore dell’altro recinto (Gv 10,16), indica l’adesione di fede e la docilità dei discepoli ellenisti. Il verbo ascoltare infatti, anche negli scritti giovannei, indica l’obbedienza della fede al Verbo incarnato, come il non-ascoltare significa il rifiuto di credere (cfr. Gv 8,47). Con la conversione dei pagani al vangelo, si rompono gli steccati tra i due recinti del mondo, quello giudaico e quello dei gentili, per formare un solo gregge, sotto un solo pastore (Gv 10,16). In realtà, secondo l’autore della lettera agli Efesini, il Cristo, la nostra pace, «ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo» (Ef 2,14).

Commento al Vangelo

Il buon pastore – Nell’Antico Testamento, la figura allegorica del buon pastore oltre a rappresentare Dio (cfr. Gen 48,15; 49,24; Sal 23,1-4; 80,2; Sir 18,13; Is 40,11; Ger 31,10; Mic 4,6-8; 7,14; Sof 3,19; Zc 9,16; 10,3) indicava anche le guide spirituali del popolo eletto (cfr. Sal 78,72; Ger 2,8; 3,15; 10,21; 12,10, 22,22; ecc.). Questo uso passò nelle comunità cristiane (cfr. Ef 4,11; 1Pt 5,1-4; ).

Il brano odierno va letto alla luce di Ez 34, dove i pastori del popolo eletto vengono rimproverati perché lasciano le pecore in preda alle bestie selvatiche (vv. 1-10). Dio stesso si incarica di averne cura: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare» (vv. 11-16). Donando agli uomini suo Figlio Gesù (cfr. Gv 3,16) Dio realizza la sua promessa.

Per il testo greco Gesù è il bel (kalos) pastore, non volendo certamente esaltare i tratti fisici: nei LXX l’uso prevalente di kalos è quello di tradurre tob che significa buono, «non tanto però nel senso di una valutazione etica, quanto piuttosto in quello di gradito, soddisfacente, benefico; kalos è… ciò che è gradito a Jahvé, che gli procura gioia o gli piace» (E. Beyreuther). Gesù è il pastore buono perché compie ciò che piace al Padre. È il pastore, quello vero, gradito al Padre, perché affronta il lupo impegnando e donando la propria vita.

Al buon pastore si contrappone il mercenario cioè colui che lavora dietro determinato compenso giornaliero. Sono messi bene in evidenza sia la pusillanimità del mercenario, che per salvare la vita abbandona le pecore e fugge; sia l’azione fulminea del lupo, che rapisce e disperde le pecore lasciate incustodite. Una scena drammatica quest’ultima, nella quale si può intravedere la situazione delle prime comunità cristiane assediate da nemici esterni ed interni. Tracce di questi “assedi pressanti” le troviamo, per esempio, nelle parole di Paolo nel discorso d’addio agli anziani di Èfeso: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio. Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé. Per questo vigilate» (At 20,28-31a).

Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me: per la sacra Scrittura, conoscere Dio per lo più non significa averne una conoscenza teorica, ma farne l’esperienza, per esempio, attraverso la storia (cfr. Is 41,20; Sal 91,11). Per Giovanni, la conoscenza «prende forma in un comportamento storico conforme a Dio e alla sua rivelazione storica. Poiché Dio rivela nella missione del Figlio il proprio amore per i suoi [Gv 17,23; 1Gv 4,9s] e per il mondo [Gv 3,16], oppure poiché il Figlio ama i suoi secondo la misura dell’amore con cui il Padre lo ama [Gv 15,9; 17,26], si realizza storicamente anche da parte dell’uomo amato un conoscere che appunto nell’amore trova la sua forma concreta [1Gv 4,8]: “Chi non ama non ha conosciuto Dio”. Come il Figlio esprime il suo amore per il Padre nell’obbedienza verso la missione che Dio gli ha affidato [Gv 14,31], così il conoscente esprime il suo conoscere nell’ossservanza dei comandamenti [1Gv 2,3-5], specialmente di quello dell’amore fraterno [1Gv 4,7s; cfr. 2,7ss], nel non peccare [1Gv 3,6]» (E. D. Schmitz).

Ho altre pecore che non provengono da questo recinto, cioè da Israele. È un chiaro cenno alla portata universale della salvezza. Ma può essere un’allusione ai «figli di Dio che erano dispersi» di 11,52, riuniti poi in un’unica nazione, o ai cristiani in conflitto con la comunità di Giovanni.

Ai Giudei e ai discepoli Gesù svela perché il Padre lo ama: il Padre mi ama: perché io do la mia vita. La compiacenza va ricercata nell’obbedien-za alla volontà salvifica del Padre (cfr. Gv 4,4; 14,31), una obbedienza vissuta tra gli spasimi mortali della sofferenza (cfr. Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,40-46; Gv 18,1; 12,27-30; Eb 5,7-10), ma lieta, serena, totale, completa fino «alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). Mentre nei Vangeli sinottici è il Padre che consegna il Figlio, in Giovanni è il Figlio stesso che si dona.

Le ultime parole di Gesù marcano la sua divinità: a differenza di At 2,24, 4,10 e Rm 1,4; 4,24 dove è il Padre a risuscitare Gesù, liberandolo dai dolori della morte, qui, come Dio, mostra assoluto potere sulla vita e sulla morte: «Ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo». Naturalmente in perfetta e filiale comunione con il Padre, infatti subito dopo si aggiunge: «Questo è il comandamento che ho ricevuto dal Padre».

Riflessione

La vocazione – Papa Francesco (Messaggio, 55° Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni 2018): Anche in questi nostri tempi inquieti, il Mistero dell’Incarnazione ci ricorda che Dio sempre ci viene incontro ed è il Dio-con-noi, che passa lungo le strade talvolta polverose della nostra vita e, cogliendo la nostra struggente nostalgia di amore e di felicità, ci chiama alla gioia. Nella diversità e nella specificità di ogni vocazione, personale ed ecclesiale, si tratta di ascoltare, discernere e vivere questa Parola che ci chiama dall’alto e che, mentre ci permette di far fruttare i nostri talenti, ci rende anche strumenti di salvezza nel mondo e ci orienta alla pienezza della felicità. Questi tre aspetti – ascolto, discernimento e vita – fanno anche da cornice all’inizio della missione di Gesù, il quale, dopo i giorni di preghiera e di lotta nel deserto, visita la sua sinagoga di Nazareth, e qui si mette in ascolto della Parola, discerne il contenuto della missione affidatagli dal Padre e annuncia di essere venuto a realizzarla “oggi” (cfr. Lc 4,16-21).

Ascoltare. La chiamata del Signore – va detto subito – non ha l’evidenza di una delle tante cose che possiamo sentire, vedere o toccare nella nostra esperienza quotidiana. Dio viene in modo silenzioso e discreto, senza imporsi alla nostra libertà. […] Occorre allora predisporsi a un ascolto profondo della sua Parola e della vita, prestare attenzione anche ai dettagli della nostra quotidianità, imparare a leggere gli eventi con gli occhi della fede, e mantenersi aperti alle sorprese dello Spirito. […] Al chiasso esteriore, che talvolta domina le nostre città e i nostri quartieri, corrisponde spesso una dispersione e confusione interiore, che non ci permette di fermarci, di assaporare il gusto della contemplazione, di riflettere con serenità sugli eventi della nostra vita e di operare, fiduciosi nel premuroso disegno di Dio per noi, di operare un fecondo discernimento. Ma, come sappiamo, il Regno di Dio viene senza fare rumore e senza attirare l’attenzione (cfr. Lc 17,21), ed è possibile coglierne i germi solo quando, come il profeta Elia, sappiamo entrare nelle profondità del nostro spirito (cfr. 1Re 19,11-13).

Discernere. Leggendo, nella sinagoga di Nazareth, il passo del profeta Isaia, Gesù discerne il contenuto della missione per cui è stato inviato e lo presenta a coloro che attendevano il Messia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me…» (Lc 4,18-19). Allo stesso modo, ognuno di noi può scoprire la propria vocazione solo attraverso il discernimento spirituale […]. Scopriamo, in particolare, che la vocazione cristiana ha sempre una dimensione profetica. […] Come un vento che solleva la polvere, il profeta disturba la falsa tranquillità della coscienza che ha dimenticato la Parola del Signore, discerne gli eventi alla luce della promessa di Dio e aiuta il popolo a scorgere segnali di aurora nelle tenebre della storia. Anche oggi abbiamo tanto bisogno del discernimento e della profezia […]. Ogni cristiano dovrebbe poter sviluppare la capacità di “leggere dentro” la vita e di cogliere dove e a che cosa il Signore lo sta chiamando per essere continuatore della sua missione.

Vivere. Infine, Gesù annuncia la novità dell’ora presente, che entusiasmerà molti e irrigidirà altri. […] Proprio «oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20), afferma Gesù. […] La vocazione è oggi! La missione cristiana è per il presente! E ciascuno di noi è chiamato – alla vita laicale nel matrimonio, a quella sacerdotale nel ministero ordinato, o a quella di speciale consacrazione – per diventare testimone del Signore, qui e ora. Questo “oggi” proclamato da Gesù, infatti, ci assicura che Dio continua a “scendere” per salvare questa nostra umanità e farci partecipi della sua missione. […] Il Signore continua oggi a chiamare a seguirlo. Non dobbiamo aspettare di essere perfetti per rispondere il nostro generoso “eccomi”, né spaventarci dei nostri limiti e dei nostri peccati, ma accogliere con cuore aperto la voce del Signore. Ascoltarla, discernere la nostra missione personale nella Chiesa e nel mondo, e infine viverla nell’oggi che Dio ci dona.

La pagina dei Padri

Il buon Pastore e il mercenario – San Gregorio Magno: Il lupo rapisce e disperde il gregge, quando attrae qualcuno alla lussuria, accende un altro d’avarizia, fa insuperbire un terzo, infiamma d’ira un quarto; pungola questo con l’invidia, inganna quell’altro con la falsità. Il lupo, insomma, disperde le pecore, allorché il diavolo uccide con le tentazioni il popolo fedele. Epperò, contro tutte queste cose, il mercenario non s’accende minimamente di zelo, non si risveglia in lui alcun fervore d’amore: mentre è alla ricerca soltanto dei propri vantaggi esteriori, all’interno sopporta con negligenza tutti i danni spirituali del gregge. Per questo, il Maestro divino aggiunge: “Il mercenario fugge proprio perché è mercenario e non gli importa nulla delle pecore” (Gv 10,13). L’unica causa della fuga del mercenario è che egli è appunto un mercenario. Come dire: non può stare al pericolo insieme alle pecore, chi ricopre il suo ufficio non per amore alle pecore, ma per desiderio di guadagni terreni. Il mercenario che accetta gli onori e si gongola nei propri lucri terreni, paventa di esporsi al rischio e di sfidare il pericolo, perché‚ corre l’alea di perdere ciò che più ama. Ma, dopo aver denunciato le colpe del falso pastore, il Signore ci prospetta ancora il modello, quasi la forma in cui dobbiamo calarci. Afferma difatti: “Io sono il buon pastore”. Quindi, aggiunge: “Io conosco”, ovvero amo, “le mie pecore, e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14). Come se intendesse dire: Le anime che mi amano, mi obbediscono, perché chi non ama la verità è segno che non la conosce ancora. Avendo udito, fratelli carissimi, il pericolo cui siamo esposti noi pastori di anime, sforzatevi di scoprire nelle parole del Signore i pericoli che del pari correte voi. Interrogatevi se siete davvero le sue pecore, chiedetevi se lo conoscete, se possedete la luce della verità.

 

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