marzo, meditazioni

11 Marzo 2018 – IV DOMENICA DI QUARESIMA (B) [Laetare]

Dal secondo libro delle Cronache (36,14-16.19-23) – Con l’esilio e la liberazione del popolo si manifesta l’ira e la misericordia del Signore: Il primo e il secondo libro delle Cronache costituiscono un’opera unica redatta probabilmente tra il 350 e il 250 prima dell’era cristiana. L’autore utilizza im-plicitamente le fonti bibliche e cita espressamente numerose fonti non bibliche di carattere sia storico che profetico. Il cronista, nel brano odierno, «conformemente al suo rigido insegnamento circa la retribuzione, fa notare […] che tanto la distruzione della città santa quanto quella del tempio, insieme con l’esilio e tutti gli altri tragici avvenimenti, sono la conseguenza dell’infedeltà del popolo e un giusto castigo di Dio. Fra le infedeltà del popolo il cronista ricorda espressamente la mancata osservanza del riposo sabbatico. I settant’anni di esilio saranno una buona occasione per riposare e restituire al Signore il tempo che gli era stato negato» (Antonio González-Lamadrid).

Dal Salmo 136 (137) – Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia: «In questo mondo vi sono due città: quella del Signore, Gerusalemme, che vuol dire visione di pace; è umiliata e afflitta in questo mondo ed ha la sua speranza nell’eternità. Vi è pure quella del diavolo, Babilonia, che vuol dire confusione: è superba e spensierata in questo mondo, irrigata dai fiumi del vizio. Sulle rive di questi fiumi sono seduti i fedeli che soffrono la prigionia di questo mondo e sospirano verso la patria, versando lacrime perché non possono trovare quaggiù la pace promessa» (Cassiodoro).

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (2,4-10) – Morti per le colpe, siamo stati salvati per grazia: Qui e in Col 2,12; 3,1-4, Paolo considera come realtà già conseguita la risurrezione e il trionfo celeste dei cristiani. Una vita nuova già donata nel fonte battesimale: mediante «il battesimo, gli uomini vengono inseriti nel mistero pasquale di Cristo: con lui morti, sepolti e risuscitati; ricevono lo spirito di figli adottivi “per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!”» (SC 6). La nostra presenza nei cieli «è perciò già effettuata in parte e, per il resto, assicurata dalla nostra unione “in Cristo Gesù”. Il Paradiso non sarà dunque una creazione nuova, ma solo lo sbocciare definitivo della inflorescenza della nostra vita spirituale» (Settimio Cipriani).

Dal Vangelo secondo Giovanni (3,14-21) – Dio ha mandato il Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui: Gesù preannunzia la sua morte cruenta sulla croce che sarà apportatrice di salvezza all’intero genere umano. Per essere salvati bisognerà «guardare» il Cristo «innalzato» sulla croce (cfr. Nm 21,8; Zc 12,10; Gv 19,37), cioè credere che egli è il Figlio unigenito (cfr. Gv 3,18; Zc 12,10), Colui che è stato mandato dal Padre per la salvezza degli uomini. La vita eterna promessa ai credenti (cfr. 2Cor 4,18), è già data loro (cfr. Gv 3,36; 5,24; 6,40.68; 1Gv 2,25), ma si compirà pienamente nella risurrezione (cfr. Gv 6,39-40.54; 11,25-26; Mt 7,14; 18,8; 19,16).

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Approfondimento

Lettera agli Efesini – È una delle lettere di maggior contenuto dottrinale e va facilmente divisa in due parti. Dopo l’indirizzo (1,1-2), la prima sezione della lettera (1,3-3,21) espone il piano divino della salvezza rivelato e attuato in Cristo. I punti chiave della sezione sono: 1,20-23, un’afferma-zione del trionfo e della supremazia universale di Cristo; tutto il secondo capitolo, in cui Paolo accenna alla gratuità della salvezza in Cristo (2,5), alla riconciliazione dei Giudei e dei pagani fra di loro e con Dio (2,19). Il terzo capitolo mette in evidenza l’apostolato di Paolo a favore dei Gentili, «chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità [dei giudeo-cristiani], a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo» del quale l’Apostolo è divenuto «ministro per il dono della grazia di Dio» a lui concessa «in virtù dell’efficacia della sua potenza». Con la seconda sezione (4,1-6,20) inizia la parte parenetica della lettera: appello all’unità (4,1-16); la vita nuova nel Cristo che consiste nel «depor-re l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici» (4,17-32), nel farsi «imitatori di Dio come figli carissimi» e nel camminare nella carità (5,1-20); appunti per una morale domestica (5,21-6,9); la descrizione delle armi spirituali da impugnare «per poter resistere alle insidie del diavolo» (6,10-20); notizie personali e saluto finale (6,21-24).

Tra le note più caratteristiche, come ci suggerisce la Bibbia di Gerusalemme, nella lettera agli Efesini, si «considera come realtà già acquisita [ver-bi al passato] la resurrezione e il trionfo celeste dei cristiani che Rm 6,3-11; 8,11.17s, considerava piuttosto nell’avvenire [verbi al futuro]». A questa peculiarità va aggiunta quella della signoria universale di Gesù Cristo risorto e il ministero della Chiesa, corpo di Cristo (1Cor 12,12), che partecipa alla rigenerazione universale sotto l’autorità del Cristo Signore e Capo (Col 1,15-20).

Gli studiosi non convergono sull’identità dei destinatari della lettera. Per la Bibbia di Gerusalemme, e per molti altri, le parole Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, ai santi che sono in, contenute nell’indiriz-zo, «sarebbero state seguite da uno spazio bianco, destinato a ricevere il nome dell’una o l’altra chiesa alla quale sarebbe stata mandata la lettera». Questa spiegazione sembra dettata dal fatto che l’inciso «a Efeso» manca nei migliori codici e manoscritti. Quindi, si tratterebbe di una lettera circolare alla quale di volta in volta si aggiungeva il nome della Chiesa a cui veniva recapitata. Per Settimio Cipriani questa soluzione sarebbe «una trovata troppo sottile per essere vera».  Per altri, tra cui l’eretico Marcione, i destinatari sono i cristiani di Laodicea.

È anche incerta l’identità dell’autore. Paolo era vissuto nella città di Efeso per tre anni (At 19,8.10; 10,22; 20,31), mentre dalla lettera, sembra che si debba dedurre che non conoscesse personalmente i destinatari (Ef 1,15; 3,21) che, a loro volta, non lo conoscevano (Ef 3,2-4). Per cui, alcuni addebitano la paternità a Tìchico, un discepolo di Paolo, ricordato più volte nelle lettere paoline (At 20,4; Col 4,7; Ef 5,21; 2Tm 3,12; Tt 3,12); altri attribuiscono la paternità a un discepolo «che avrebbe lavorato intorno all’87-92 nelle vicinanze di Efeso: questo discepolo avrebbe fatto una raccolta delle lettere paoline e poi avrebbe composto Efesini come sommario dottrinario da aggiungere alla raccolta» (John McKenzie).

Comunque al di là delle tante soluzioni, è innegabile che le caratteristiche paoline presenti nella lettera, sembrano «esigere che [Paolo] abbia partecipato alla composizione; la parte avuta da altre teste e da altre mani si può forse spiegare che lo scrittore abbia assolto con maggiore libertà di espressione e di concezione di quanta non ne avessero generalmente gli amanuensi. Questo scrittore probabilmente non prese parte alla composizione di altre lettere paoline; senza dubbio dovette usare [la lettera ai] Colossesi come falsariga e come modello espressivo» (J. McKenzie). La data, a motivo della vicinanza alla lettera ai Colossesi, può essere fissata alla fine della prigionia romana di Paolo, cioè poco prima della primavera dell’anno 63.

Commento al Vangelo

Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo – Il brano evangelico di questa domenica conclude il dialogo di Gesù con Nicodemo, «uno dei capi dei Giudei» (Gv 3,1). Il personaggio, probabilmente un membro del sinedrio, si trova solo nel Vangelo di Giovanni (cfr. 7,50; 19,39) e «rappresen-ta il gruppo dei Giudei che, pur avendo visto i segni compiuti da Gesù e nonostante la loro sapienza religiosa non comprendono» (Sacra Bibbia).

Nella prima parte del colloquio era stata sottolineata la necessità del Battesimo per entrare nel regno di Dio: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). Ora, in quest’ultima parte del dialogo, si afferma la necessità della fede per fruire del dono della salvezza: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (Gv 3,17-18).

Il tema dell’esaltazione del Figlio dell’uomo compare in tre passi del Vangelo di Giovanni (cfr. 3,14; 8,28; 12,22-24), e costituiscono l’equivalente giovanneo della triplice predizione della passione del Cristo registrata nei vangeli sinottici (cfr. Mt 16,21; 17,22ss; 20,18ss, e par. in Mc e Lc).

Nel IV Vangelo, il verbo innalzare designa l’innalzamento fisico di Gesù sulla croce, e per mezzo di questa stessa croce, l’elevazione o glorificazione di Gesù. Un evento contemplato da san Giovanni come una intronizzazione regale: «la croce è il trono regale di Gesù. Questa elevazione-esaltazione dell’uomo Gesù sulla croce rappresenta la condizione necessaria per il riconoscimento della sua divinità [Gv 8,28]; da quel trono regale infatti Gesù attirerà tutti a sé [Gv 12,32]» (Salvatore A. Panimolle).

Il richiamo al serpente di bronzo è opportuno per far intendere che ora, nella pienezza del tempo (cfr. Gal 4,4), per ottenere la salvezza bisogna guardare a colui che hanno trafitto (cfr. Zc 12,10; Gv 19,37).

Uno sguardo che significa credere nel Figlio unigenito, accogliere la sua Persona e questo vuole dire che la salvezza come la condanna dipendono in definitiva da questa risposta o rifiuto nei confronti del Cristo.

Chi non crede è già stato condannato: in un certo senso, si è condannato da sé: «Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire» (Gv 12,47-49). Quindi, solo nel Crocifisso v’è la salvezza. È quanto Pietro, pieno di Spirito Santo, con franchezza annunzierà ai capi del popolo d’Israele e agli anziani, irritati per il fatto che l’Apostolo, con Giovanni, insegnava al popolo e annunziava in Gesù la risurrezione dai morti: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12).

«Non possiamo negare – scrive Vincenzo Raffa – anche se inclinati all’ot-timismo e contrari ad ogni drammatizzazione, che il cristiano nel mondo moderno si trova, come gli Ebrei, in un deserto infestato di serpenti pericolosi alla vita morale e spirituale. Dappertutto si possono incontrare sollecitazioni alle famose concupiscenze della carne, della ricchezza e dell’ambizione, l’indifferenza morale, la fobia del religioso, il materialismo, i molteplici scandali in alto e in basso, il marcio nella letteratura e nei mezzi di comunicazione». A questo uomo, esposto a tutti questi pericoli e perennemente minacciato dai morsi velenosi del serpente, a lui, oggi (Eb 3,7-11), nel Figlio dell’uomo, Parola di salvezza (At 13,26), innalzato sulla croce, viene offerta la vita eterna.

Questa vita, come ci suggerisce la Bibbia di Gerusalemme, è detta eterna, perché «denota una qualità propriamente divina per la quale la vita è al di là di ciò che è corporeo e del tempo, di durata misurabile [cfr. Gen 21,33; Is 40,28; Sal 90,2; Sap 5,15-16 ecc.]».

Ma il colloquio con Nicodemo, uno dei capi dei Giudei, mette in evidenza anche l’amore misericordioso del Padre, che si fa dono di salvezza nella carne crocifissa del Figlio unigenito. La misericordia sta al vertice del piano divino e informa tutte le azioni benefiche di Dio a favore degli uomini.

Dio è «creatore perché ha creato dal nulla tutte le cose, effondendo le sue stupende meraviglie. È anche giustizia di fronte all’uomo peccatore, rivendicando la gloria e l’onore conculcato. Tuttavia Dio è soprattutto amore; e la giustizia, la sapienza, la potenza sono da Lui impegnate per fare risplendere il suo più grande amore» (P. Massimo Biocco).

Dio rivela la sua onnipotenza verso l’umanità non col punire i colpevoli distruggendoli con raffinate morti, non con l’annientare i nemici precipitandoli nell’Inferno, ma manifestando la sua pazienza, il suo perdono: «Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,8-9; cfr. Sap 11,23s; 12,8). Dio agisce così anche se questo suo agire lo può far apparire quasi un debole, come se dovesse sempre perdere dinanzi alla prepotenza dell’uomo.

Dio dà il massimo donando il Figlio e non poteva né dare né fare di più. Tutto ciò che Dio ha dato e fatto è un vero dono. L’umanità poteva essere salvata ed elevata in altri modi. Ma Dio ama gli uomini in modo infinito, perciò ha voluto dare e fare il massimo possibile. Ha voluto il massimo, e l’ha fatto donando il Figlio. In questo modo, la croce è il segno dell’amore smisurato di Dio: nel mistero della croce l’albero della vita ritorna a fiorire e si manifesta pienamente l’amore dello Sposo alla sposa (cfr. Ef 5,25); attraverso il cuore trafitto di Cristo Gesù, l’uomo può attingere alle «imperscrutabili ricchezze» (Ef 3,8) dell’amore di Dio.

Riflessione

Chiunque crede nel Figlio dell’uomo avrà la vita eterna – La fede è conoscere, accettare, vivere il Cristo: accoglierlo e rifletterlo nei pensieri, nelle parole, nelle opere. È una conoscenza viva, intima, profonda. È intimità che è vita, preludio di vita eterna: “La fede ci fa gustare come in anticipo la gioia e la luce della visione beatifica, fine del nostro pellegrinare quaggiù. Allora vedremo Dio «a faccia a faccia» [1Cor 13,12], «così come egli è» [1Gv 3,2]. La fede, quindi, è già l’inizio della vita eterna” (CCC 163).

La fede è sopra tutto via che conduce alla salvezza. Così come ci suggerisce ancora il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Credere in Gesù Cristo e in colui che l’ha mandato per la nostra salvezza, è necessario per essere salvati. «Poiché senza la fede è impossibile essere graditi a Dio [Eb 11,6] e condividere le condizioni di suoi figli, nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna se non persevererà in essa sino alla fine (Mt 10,22; 24,13)»”. La fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente (CCC 162), e per “vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla; essa deve operare «per mezzo della carità», essere sostenuta dalla speranza ed essere radicata nella fede della Chiesa” (CCC 162). Ma sopra tutto la fede ha bisogno di preghiera. Chi non prega non può avere il dono della fede. Chi prega poco, ha poca fede; chi prega molto, ha molta fede. L’uomo che abbandona la preghiera perde la fede e la fede abbandona lui, e, in questo modo, da se stesso l’uomo si inabissa in una conoscenza depravata dell’uomo, della sua storia, del suo fine ultimo: la creatura, infatti, senza il Creatore svanisce (GS 36). Il Cristo è un dono che il Padre dona gratuitamente ai suoi figli, ma è un dono troppo prezioso per donarsi a chi non lo apprezza (cfr. Gv 4,10). Se la fede è preludio di vita eterna, è già conquista dei beni eterni perché con la fede si vive in una atmosfera di ordine soprannaturale (cfr. At 17,28) e nel cuore del credente si spalancano le porte della verità, della speranza, della carità: egli è già in Dio e in Dio in lui!

La pagina dei Padri

La Fede, la Speranza e la Carità – Guglielmo di Saint-Thierry: Dio ha mandato il Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui e fra tutti i mezzi di salvezza che il Dio che ci salva (Sal 67,21) ha proposto all’uomo di utilizzare per salvarsi, i principali sono la Fede, la Speranza e la Carità; i mortali che vogliono salvarsi devono praticare soprattutto queste virtù. È la Trinità santa, infatti, che ha costituito questa trinità nell’anima fedele a propria immagine e somiglianza (Gen 1,26); grazie ad essa noi siamo rinnovati, nel nostro uomo interiore (Rm 7,22; Ef 13,16), secondo il modello di Colui che ci ha creati (Col 3,10) ed essa è la forza organizzatrice della salvezza umana, che tutta la Scrittura ispirata da Dio (2Tm 3,16) mira a generare e realizzare nei cuori dei fedeli. L’uomo, in effetti, comincia dalla Fede. Per ora, finché peregriniamo lontano dal Signore (2Cor 5,6), l’Apostolo non ci inganna quando afferma che Cristo risiede nei nostri cuori in virtù della Fede (1Cor 13,13). Anche la Speranza, però, ci è necessaria nel nostro pellegrinaggio. È lei, infatti, che ci conforta lungo la via. Togli al viaggiatore la speranza di arrivare, e le forze per progredire gli verranno meno. Poi, pervenuti dove siamo diretti, la Fede non ci sarà più… perché Dio lo vedremo e lo contempleremo. Ma non vi sarà più bisogno neanche della Speranza, dal momento che sarà presente la realtà. Infatti, quello che si vede non è più oggetto di speranza (Rm 8,24). Comunque non scompariranno né la Fede, né la Speranza, ma si trasfigureranno nei loro oggetti, poiché ciò che era creduto si vedrà, e si possederà quel che era sperato. La Carità, invece, non solo sussisterà, ma raggiungerà la perfezione quando ciò che si ama adesso credendo e sperando, sarà allora amato vedendo e possedendo.

 

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