Liturgia, Novembre

18 Novembre 2018 – XXXIII del Tempo Ordinario (B)

Dal libro del profeta Daniele (12,1-3) – In quel tempo sarà salvato il tuo popolo: Questa pagina di Daniele è uno dei testi dell’Antico Testamento più significativi sulla resurrezione della carne. Il libro della vita, nel sentire comune e nella letteratura antica, era il libro divino dove venivano segnati i predestinati (cfr. Es 32,32-33; Sal 69,29; Sal 139,16; Is 4,3; Dn 7,10; Lc 10,20; Ap 20,12). Una contabilità necessaria nel giorno del giudizio universale: infatti, chi non sarà trovato scritto nel libro della vita sarà gettato nello stagno di fuoco (cfr. Ap 20,15). Coloro che avranno indotto alla giustizia sono i «maestri di giustizia». Per loro è riserbato un destino di gloria.

Dal Salmo 15 (16) – Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio: «L’eredità della natura ragionevole è la contemplazione, l’eredità del Cristo è la conoscenza di Dio. Il Cristo dice come sommo sacerdote: Il Signore è la mia porzione. L’eredità del Cristo, quindi, è il Padre, e quelli che il Padre gli dà. Chi ha rinunciato a tutto in questo mondo, può dire: Il Signore è la porzione della mia eredità in eterno. Il Signore si fa pane dandoci i suoi insegnamenti e fortificando il cuore di colui che mangia; si fa calice nella misura in cui contempliamo la verità, e dà la gioia della conoscenza a chi beve con amore. La vera Vigna ci tende il calice e chi beve dice, con un rendimento di grazie: Hai dato gioia nel mio cuore (Sal 4,7)» (Origene).

Dalla lettera agli Ebrei (10,11-14.18) – Cristo con un’unica offerta ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati: Il sacrificio consumato da Cristo è unico ed irrepetibile. Seduto alla destra del Padre, Gesù aspetta «ormai solo che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi» e l’ultimo «nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Cor 15,26). Il cristiano in virtù dell’oblazione del Cristo è già perdonato e riconciliato col Padre e in virtù del Battesimo è già santo, ma nella sua carne non potrà non sentire il pungolo del peccato: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,18-19).

Dal Vangelo secondo Marco (13,24-32) – Il Figlio dell’uomo radunerà i suoi eletti dai quattro venti: Sembra che il brano marciano voglia riferirsi esclusivamente alla rovina di Gerusalemme. Inoltre, numerosi critici credono che questa pagina di Marco si sia ispirata a Daniele. I prodigi cosmici, le persecuzioni, i disastri e i cataclismi servono nel linguaggio tradizionale dei profeti a descrivere i potenti interventi di Dio nella storia. Per la Bibbia di Gerusalemme, niente impone «di applicarli alla fine del mondo, come si fa spesso a causa del contesto in cui sono stati inseriti da Matteo [cfr. Mt 24,1]». Comunque, nulla vieta di pensare che Gesù annunci un fatto storico più o meno prossimo, intendendo per suo mezzo di annunciarne altri più lontani nel tempo. Così l’imminente distruzione del tempio e di Gerusalemme è preludio della fine delle cose. Il primo evento è segno e pegno degli altri.

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

Approfondimento

La parusia – Giuseppe Barbaglio (Parusia in Schede Bibliche, EDB): Nell’Antico Testamento il libro di Daniele aveva annunciato la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. Si trattava di una figura celeste e regale. Da Dio avrebbe ricevuto un regno eterno (Dn 7,13-14). Il Nuovo Testamento scopre l’identità tra il Figlio dell’uomo di Daniele e dell’apocalisse giudaica e la persona di Cristo. Alla fine della storia Gesù si ammanterà di gloria, si rivelerà come re maestoso, apparirà circondato dai santi e dagli angeli che formeranno la sua corte celeste.

Le descrizioni fantastiche di Matteo e di Marco non vogliono significare altro (Mt 25,31; Mc 13,26). La tradizione cristiana più antica è testimoniata dalle prime lettere di Paolo (1Ts 4,16; 2Ts 1,6). L’apostolo Pietro trova nella gloriosa trasfigurazione di Gesù sul monte un segno profetico dell’apparizione gloriosa del Signore nell’ultimo giorno (2Pt 1,16).

L’accento è posto sulla gloria, la maestà, lo splendore celeste della apparizione di Cristo alla fine. Il contrasto con la prima venuta in terra è evidente. Il Verbo si era fatto carne (Gv 1,14). Lo splendore della divinità era nascosto dall’umanità fragile, debole, mortale di Gesù di Nazareth. Gesù era il Figlio di Dio diventato in tutto uguale agli uomini, di cui aveva assunto l’aspetto servile (Fil 2,7-8). La gloria divina della sua persona era apparsa, per un istante, sulla montagna della trasfigurazione. Nella risurrezione Dio Padre lo aveva glorificato e lo aveva costituito messia e Signore (At 2,36). La fine dei tempi rivelerà davanti a tutti, in forma ufficiale, la gloria divina di Gesù. La sua regalità, acquisita nella risurrezione, sarà proclamata e realizzata pienamente. Gesù apparirà come il Figlio dell’uomo, intronizzato re messianico dal Padre. La storia della rivelazione divina si concluderà nella manifestazione chiara di Cristo alla fine (1Tm 6,14-15).

Il tutto, però, non riguarda esclusivamente Cristo.

Egli non è separato dai suoi, anzi vi è unito indissolubilmente. La glorificazione regale del Signore è accompagnata dalla rivelazione gloriosa dei santi.

La fine dei tempi è manifestazione cristologica e, insieme, ecclesiologica. La Chiesa di Cristo parteciperà alla gloriosa apparizione del suo Signore. Il popolo santo sarà glorificato, insieme con il suo messia.

Già il libro di Daniele parlava di «santi dell’Altissimo», beneficiari del Regno. La figura del figlio dell’uomo non è separata dal popolo di Dio (Dn 7,27).

La tradizione evangelica conosce l’entrata delle vergini sagge nella sala delle nozze dello sposo (Mt 25,1-13). La grandiosa pagina del giudizio finale è significativa (Mt 25,34). Le lettere ai Tessalonicesi notano la partecipazione dei credenti alla glorificazione di Cristo. Neppure la morte toglierà loro la possibilità di prender parte alla grande festa della venuta maestosa e trionfale del Signore (1Ts 4,15-17; 2Ts 1,6ss.). L’apostolo Paolo si dice certo di ricevere la corona del trionfo dalle mani del Signore che ritornerà; e con lui saranno coronati i fedeli (2Tm 4,8; cfr. 1Pt 5,4).

La prima lettera di Pietro mette in rapporto causale la partecipazione alle sofferenze di Cristo e la partecipazione alla sua gloria finale (1Pt 4,13).

Il rapporto sofferenze-gloria non è di perfetta uguaglianza: Paolo afferma che c’è sproporzione a favore della gloria: questa sarà assai superiore alle sofferenze (Rm 8,17-18). Sempre in forza del parallelismo Cristo-cristiano l’apostolo parla della rivelazione gloriosa dei cristiani in unione alla rivelazione gloriosa di Cristo (Col 3,3-4).

Il tema porta, infine, alle due immagini celebri della Chiesa vista da Giovanni nell’Apocalisse come Gerusalemme celeste e come sposa adorna per le nozze (Ap 21,2.9-12). Alla fine dei tempi, insieme con Cristo, anche il popolo messianico avrà la sua rivelazione di gloria. Apparirà nello splendore di popolo purificato dal sangue del suo Signore e santificato dal suo Spirito. La sposa di Cristo risplenderà bella e immacolata, senza macchia né ruga (Ef 5,27).

Commento al Vangelo

Dopo quella tribolazione – Dopo la parte destinata alla fine di Gerusalemme (cfr. Mc 13,14-23), il testo marciano si sofferma ad annunciare la venuta gloriosa del Cristo (cfr. Mc 13,24-27).

Il linguaggio usato è quello apocalittico adoperato dai profeti dell’Antico Testamento, secondo il quale gli sconvolgimenti cosmici – il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore, e gli astri si metteranno a cadere dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte – annunciano l’irruzione di Dio nella storia dell’uomo: «Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».

Il Figlio dell’uomo verrà «nella sua gloria con tutti i suoi angeli» (Mt 25,31), i quali riuniranno gli eletti del Cristo «dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo».

Tale riunione sarà foriera di speranza per gli abitanti di un mondo destinato a perire. Infatti, nonostante la «grande tribolazione» (Mt 24,21) che attanaglierà Gerusalemme, ci sarà un resto formato dagli eletti, quelli che avranno resistito fino al termine della prova, i quali avranno anche un ruolo di intercessione a beneficio di tutti gli uomini: «Se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessun uomo si salverebbe. Ma a motivo di quegli eletti che si è scelto ha abbreviato quei giorni» (Mc 13,20). L’umanità così non andrà definitivamente perduta.

La similitudine del fico vuole insegnare all’uomo ad essere più accorto, a saper leggere i segni dei tempi: «Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,56-57).

È un invito alla vigilanza, lo stesso invito che Gesù rivolgerà a Pietro, a Giacomo e a Giovanni nell’orto del Getsemani (cfr. Mc 14,34.37.38).

Questi eventi sono così vicini che «non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute». Queste parole di Gesù, che dai più vengono riferite alla distruzione del tempio di Gerusalemme, si realizzeranno alla lettera appena quarant’anni dopo questo annuncio quando le truppe romane raderanno la città santa al suolo.

Andando indietro nel testo si legge che i discepoli sembravano rapiti dalla magnificenza del tempio fatto erigere dal re Erode il Grande (cfr. Mc 13,1). Eppure tanta bellezza era già segnata dalla rovina: «Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta» (Mc 13,2). Nel 70, dopo la rivolta del 66, le legioni romane al comando di Tito distruggeranno il tempio e con esso cadrà in rovina Gerusalemme e i suoi abitanti saranno deportati. La profezia evangelica si realizzerà alla lettera: tutto venne portato via, anche le pietre, e a tutt’oggi non troviamo nulla che ricordi la grandezza della magnifica costruzione erodiana a parte un muro di contenimento della spianata del tempio, il famoso ‘muro del pianto’.

Alla fine del mondo si sovrappone l’annuncio della distruzione del tempio di Gerusalemme: i due eventi si mescolano perché la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio per un giudeo non poteva non essere figura della fine del mondo.

L’affermazione – Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno – ribadisce l’evidente eternità e immutabilità divina della Parola di Dio (cfr. Is 51,6): «Le parole di Cristo, che traggono origine dall’eternità, possiedono tale forza e tale potere da durare per sempre» (S. Ilario).

Nessuno conosce il giorno e l’ora quando si scateneranno questi eventi, neppure il Figlio: un’affermazione che ha messo in difficoltà intere generazioni di cristiani, ma il problema della comprensione depone per la sua genuinità.

Per Gregorio Nazianzeno è «fuori dubbio che Cristo, come Dio, conosce l’ora della fine del mondo, ma, poiché qui si parla di Figlio senza alcun riferimento, possiamo ritenere che questa ignoranza la si possa attribuire all’umanità del Cristo, senza coinvolgere la sua Divinità».

Se nessuno conosce quel giorno, non sta a noi indagare. Il Padre sa e noi ci fidiamo di lui.

Riflessione

È vicino – A parte i santi, i beati e i servi di Dio, la vigilanza non è più pane quotidiano per molti credenti (cfr. Sap 2,6-7; Is 22,13; 1Cor 15,32).

Eppure il Vangelo è zeppo di quei moniti che invitano l’uomo a saper leggere i segni dei tempi e ad essere vigilanti (cfr. Mt 25,13; Mc 13,33-34; Lc 12,37). Anche Paolo ritorna spesso sul tema della vigilanza: «… il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte… Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,2.6).

Una saggia esortazione da mettere urgentemente in atto perché due eventi ineluttabili incombono sull’uomo: la morte e la fine del mondo. Due eventi lontani nel tempo l’uno dall’altro, ma che coincidono perfettamente tra loro perché con la morte si va già incontro al giudizio e il giudizio di Dio, alla fine del mondo, ratificherà la sentenza emanata nel giorno della fine dell’esistenza. Se poi si è miscredenti e non si vuol credere al giudizio universale, resta come verità inoppugnabile la morte dell’uomo e sarebbe da stolti credere che all’uomo spetti lo stesso destino delle bestie (cfr. Qo 3,18-22).

Anche se non conosciamo il tempo né l’ora della fine del mondo, già «è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi [cfr. 1Cor 10,11]. La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora [cfr. 2Pt 3,13], la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio [cfr. Rm 8,19-22]» (LG 48).

Da qui l’imperativo a vegliare perché non sappiamo in quale giorno il Signore verrà (Mt 24,42), di indossare l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e resistergli nel giorno malvagio (cfr. Ef 6,11-13) e di sforzarsi di essere in tutto graditi al Signore (cfr. 2Cor 5,9).

Proprio perché non conosciamo il giorno né l’ora, «bisogna che, seguendo l’avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile della nostra vita terrena [cfr. Eb 9,27], di entrare con lui al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati [cfr. Mt 25,31-46], e non ci venga comandato, come a servi cattivi e pigri [cfr. Mt 25,26], di andare al fuoco eterno [cfr. Mt 25,41], nelle tenebre esteriori dove “ci sarà pianto e stridore dei denti” [Mt 22,13 e 25,30]. Prima infatti di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo “davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di male” [2Cor 5,10], e alla fine del mondo “usciranno dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna” [Gv 5,29]» (LG 48).

Memento mori, ricordati che devi morire, il motto dei trappisti che si ripetono a vicenda ogni volta che s’incontrano, è una verità così lapalissiana che è incontestabile. Ma anche queste parole di Seneca: «Non sai in qual luogo la morte ti attenda, ma tu attendila in tutti i luoghi». Noi credenti non attendiamo la morte, ma «nuovi cieli e una terra nuova» (2Pt 3,13) e attendere, a volte, è sinonimo di desiderio, desiderio di vedere Dio; «ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo» (Fil 1,23), e qui abbiamo messo il dito nella piaga: desideriamo «essere con  Cristo»?

Se già è avvenuta la distruzione del tempio di Gerusalemme, che è stata la fine di un mondo, certamente verrà la fine della storia e proprio perché l’uomo ignora il tempo e l’ora è invitato ad assumere un atteggiamento responsabile di fronte al Signore che viene.

Gesù per eccitare «la nostra condizione di vigilanza non ha voluto rivelarci il tempo esatto della fine. Non era necessario e non sarebbe stato neppure utile. Il vangelo di oggi ci documenta questa netta determinazione di Cristo di lasciarci all’oscuro su scadenze così vitali per noi, anche perché ciò è una difesa alla nostra debolezza e favorisce il nostro abbandono in Dio» (Vincenzo Raffa).

La pagina dei Padri

Beatitudine che deriva dal timore del giudizio – Basilio il Grande: Beata l’anima che giorno e notte non si lascia prendere da altra preoccupazione che quella di sapere come rendere conto senza angoscia della propria vita in quel grande giorno, in cui tutte le creature si presenteranno al giudice per rendere conto delle loro azioni. Chi, infatti, ha sempre davanti agli occhi quel giorno e quell’ora, chi sempre pensa alla propria difesa davanti a quell’incorruttibile tribunale, costui o non peccherà mai, o peccherà solo lievemente, poiché, se a noi capita di peccare, è a causa della mancanza di timore di Dio. A coloro per i quali l’aspettativa delle minacce è efficiente, il timore di cui sono penetrati non permette loro in nessun momento di cadere in azioni o pensieri non voluti. Ricordati dunque sempre di Dio, serba nel tuo cuore il suo timore, e invita tutti perché si uniscano alla tua preghiera.

Grande è infatti l’aiuto di coloro che possono placare Dio. E non smettere mai di fare ciò. Mentre viviamo in questa carne, la preghiera sarà un buon aiuto per noi; e quando ce ne dipartiremo da qua, sarà un viatico sufficiente per la vita futura.

Come la sollecitudine è buona, così invece lo scoraggiamento, la mancanza di fiducia o la disperazione per la propria salvezza rappresentano per l’anima ciò che vi è di più dannoso.

Spera dunque nella bontà di Dio e aspettati da lui la ricompensa, sapendo che, se ci convertiamo a lui con tutta onestà e sincerità, non solo egli non ci rigetterà in eterno, ma che, mentre staremo ancora pronunciando le parole della preghiera, ci dirà: «Eccomi, sono qui» (cfr. Is 58,9).

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