agosto, Liturgia

12 Agosto 2018 – XIX del Tempo Ordinario (B)

Dal primo libro dei Re (19,4-8) – Con la forza di quel cibo camminò fino al monte di Dio: Israele oramai tradiva sfacciatamente Yahvé, prostituendosi con voluttà ai culti pagani importati dalla regina Gezabele, sposa del re Acab. Il profeta Elia, per salvaguardare l’alleanza e ristabilire la purezza della fede, ordina un’ordalia dalla quale Baal, la divinità che veniva contrapposta a Yahvé, esce sconfitto. Al termine del «giudizio di Dio», dopo aver scannato i 450 sacerdoti di Baal, ripara nel deserto per sfuggire alle ire della regina Gezabele. Sostenuto da un pane prodigioso compie un lungo viaggio che lo condurrà sull’Oreb: la santa montagna dove il vero Dio si è rivelato a Israele (cfr. Es 3; 33,18; 34,9) e dove è stata conclusa l’alleanza (cfr. Es 19; 24; 34,10-28). In questo modo, l’opera del profeta è congiunta a quella di Mosé: entrambi sono vissuti, hanno combattuto e sono morti per la purezza della fede. Accostati dalla teofania dell’Oreb, Mosé ed Elia lo saranno anche nella trasfigurazione del Cristo.

Dal Salmo 33 (34) – Gustate e vedete com’è buono il Signore: “Sarete illuminati con una luce che non può venire meno. Anche nel momento in cui era deriso dai soldati il Cristo era pur sempre la vera luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo (cfr. Gv 1,9)” (Agostino).

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (4,30 – 5,2) – Camminate nella carità come Cristo: Il testo paolino è tratto da un brano della lettera dell’apostolo Paolo indirizzata ai credenti di Efeso dove sono state raccolte alcune regole per la vita nuova dell’uomo inserito in Cristo. Anzitutto, bisogna scongiurare ogni divisione, sarebbe come lacerare, fare a pezzi il Corpo di Cristo. Se lo Spirito Santo è la sola malta che tiene unito il corpo del Cristo (cfr. Ef 4,4; 1Cor 12,13) e se Paolo scrive ad una comunità litigiosa, allora è chiaro che lo Spirito Santo è «rattristato» da tutto ciò che nuoce all’unità di questo corpo. Ma è altresì evidente che si rattrista lo Spirito Santo conducendo anche una vita volgare (asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze… cfr. Gal 5,19-21). Paolo così invita i cristiani di Efeso a farsi imitatori di Dio. L’imitazione di Dio “è possibile ai cristiani che mediante lo Spirito Santo sono diventati figli di Dio, partecipando alla sua stessa natura. È tutta la vita vissuta nell’amore di Cristo che è conforme alla natura di Dio” (P. Tiziano Lorenzin). Ma vi è un’altra medicina che è alla portata di tutti: l’amore, quella straordinaria forza che «move il sole e l’altre stelle» (Dante Alighieri) e sopra tutto i cuori degli uomini.

Dal Vangelo secondo Giovanni (6,41-51) – Io sono il pane vivo, disceso dal cielo: Il contesto di questo brano è il discorso del pane di vita come è chiamato il sesto capitolo del vangelo secondo Giovanni. I giudei, sempre scontenti come gli ebrei nel deserto (cfr. Es 16,2s; 17,3; Nm 11,1; 14,27; 1Cor 10,10), conoscono un buon mestiere che li mette al riparo di ogni tentativo di conversione: è il masticare amaro; la mormorazione e la denigrazione; il beffeggiamento e il dileggiamento dell’avversario. Gesù nonostante tutto va avanti nel suo insegnamento: alludendo, ora, all’eu-caristia, pane necessario per ricevere il dono della vita eterna; ora, riferendosi alla sua passione (cfr. Lc 22,19): sacrificio unico e necessario per essere liberati dal peccato e dalla morte.

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Approfondimento

II mistero della fede – Salvatore Panimolle (Lettura pastorale del vangelo di Giovanni, Vol. II, EDB): Nel discorso di Cafàrnao è prospettato con sufficiente chiarezza il carattere misterioso della fede, perché da una parte essa è presentata come un dono di Dio, dall’altra è proclamata la libertà umana nel processo di adesione alla persona del Verbo incarnato.

Il Cristo giovanneo dichiara esplicitamente che può andare verso di lui solo chi è attirato dal Padre (Gv 6,44). Anzi Gesù, nel brano finale che descrive la reazione dei discepoli alle sue parole di rivelazione, dichiara che può credere nel Figlio di Dio solo chi ha ricevuto questo dono dal Padre (Gv 6,65). Inoltre in Gv 8,43 egli dice anche ai suoi avversari che essi non possono ascoltare la sua parola divina, ossia da soli sono incapaci di fare il salto della fede. In questo sermone sul pane di vita, però, è affermato che Dio chiama tutti alla salvezza per mezzo del Figlio suo e che vuole ammaestrare tutti per condurli al Cristo (Gv 6,45). La fede quindi è un dono, è una grazia che il Padre vuol concedere a tutti gli uomini.

Il carattere di favore divino, proprio della fede, non sopprime la libertà umana nell’accogliere o nel rigettare questa grazia celeste. In realtà il quarto evangelista non è determinista, perché sottolinea molto la responsabilità dell’uomo nel rifiuto della fede. Giovanni infatti presenta l’incredulità del mondo, già giudicato e condannato per questa sua scelta, come un preferire le tenebre alla luce (Gv 3,19). L’uomo perciò è responsabile di questo suo atteggiamento religioso. Anzi il nostro agiografo parla dell’incredulità come di un rifiuto a voler andare verso il Verbo incarnato (Gv 5,40). Si tratta quindi di un libero atto di volontà.

Nel discorso di Cafàrnao, parimenti è insinuata la libertà dell’uomo nel credere in Gesù. Il Maestro presenta la fede come l’unica opera che l’uomo deve compiere (Gv 6,29), anzi rimprovera i galilei di non credere, nonostante abbiano visto il Rivelatore in persona, operatore di segni straordinari (Gv 6,36). In realtà la fede è un andare verso il Cristo (Gv 6,35), ascoltando l’insegnamento del Padre e lasciandosi ammaestrare da lui (Gv 6,45). Espressioni simili dicono che l’uomo deve fare la verità (Gv 3,21), ossia deve far propria la rivelazione del Verbo incarnato, deve mostrarsi docile alla voce di Dio, interiorizzando la sua parola. Quindi la fede implica il movimento della volontà e perciò presuppone la responsabilità dell’uomo, pur essendo dono di Dio.

In un altro contesto Gesù domanda ai suoi avversari, per quale ragione non credono a colui che rivela loro la verità, ossia comunica loro la parola salvifica di Dio (Gv 8,46). In realtà i giudei increduli, nell’opposizione al Verbo incarnato e nei loro propositi omicidi, vogliono eseguire i desideri del loro padre, il diavolo, il primo omicida del mondo (Gv 8,44).

La fede quindi, per il nostro evangelista, è una realtà misteriosa, perché dono divino, che coinvolge la responsabilità dell’uomo. Nessuno può credere, se non ha ricevuto questa grazia dal Padre celeste; ciò nonostante la fede, o l’incredulità, non sopprime la libertà umana: la creatura infatti può accettare o rifiutare questo favore divino. In realtà il Salvatore invita tutti alla fede, però non costringe nessuno ad accogliere il suo appello.

Commento al Vangelo

Mormoravano di lui – Il sesto capitolo del Vangelo di Giovanni può essere diviso in quattro parti: il segno della moltiplicazione dei pani e del cammino sulle acque (vv. 1-21); la breve introduzione al discorso nella sinagoga di Cafàrnao (vv. 22-25); il discorso sul pane di vita (vv. 26-59); la reazione dei giudei e la professione di fede di Pietro (vv. 60-71).

I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo»: con il termine Giudei possiamo intendere non solo gli Ebrei, che stavano rifiutando il discorso di Gesù, ma anche coloro che in ogni tempo avrebbero rigettato il suo messaggio. I Giudei conoscevano il racconto del miracolo della manna che nel deserto aveva saziato i loro Padri e li aveva sostenuti nella lunga e faticosa marcia nel deserto (cfr. Es 16,1ss; Sal 78,24; Sap 16,20-21). Mormorano proprio perché quello del pane disceso dal cielo era un linguaggio fin troppo familiare e non riescono a comprendere il discorrere di Gesù e sopra tutto non capiscono dove voglia andare a parare col suo dire. In ogni caso, non possono accettare la supponenza di Gesù che si autodefinisce pane del cielo, se lo facessero le conseguenze sarebbero immediate: dovrebbero accettare Gesù come il Messia. E questo per dei cuori spenti è impossibile (cfr. Lc 4,16-30). I Giudei mormorando rendono palese la loro incredulità e la loro ottusità. La mormorazione è una sorta di maledizione che perseguita Israele: come un tempo il popolo mormorava nel deserto, ora mormora perché non comprende l’origine e il dono di Gesù (o non vuole comprendere?).

I Giudei così come avevano rifiutato nel deserto la manna, perché cibo troppo leggero (cfr. Nm 11,6), ora rifiutano il Verbo fatto carne, pane disceso dal cielo: «Il Verbo venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11). All’uomo che deve attraversare il deserto della vita per giungere alla terra promessa, Cristo Gesù, si dona come pane-manna: ora in mezzo agli uomini c’è Colui che si è fatto pane perché essi possano raggiungere felicemente e agevolmente la terra promessa. Ma il dono è rifiutato: i Giudei si scandalizzano perché credono di conoscere le origini terrene di Gesù, ma la loro conoscenza materiale è insipienza. Anche nei “Sinottici la conoscenza della famiglia terrena di Gesù costituisce uno scandalo a Nàzaret [Mc 6,3 par; Gv 1,45; 4,44]. Ciò dimostra la conoscenza di questa tradizione da parte di Giovanni. La gente crede di conoscere l’origine di Gesù e invece la sua conoscenza materiale è ignoranza. Per credere bisogna superare questo scandalo del Verbo incarnato” (Giuseppe Segalla).

Gesù dinanzi a tanta cecità e incapacità investigativa non disarma, ma cerca di dare una mano ai Giudei perché comprendano e così trasporta i contestatori sul piano della fede: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

Cosa vuol dire che il Padre attira? Forse non è libero l’uomo nel suo andare? L’espressione di Gesù va compresa solo alla luce dell’amore e della fede. La fede è un dono di Dio, ma ha come condizione l’apertura da parte dell’uomo, l’ascolto di Dio: l’uomo, pur consapevole della sua debolezza che non gli permette di giungere a Dio con le sue sole forze, desidera e ama Dio; anela, tende a Lui e fiducioso attende quella grazia divina che «previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità» (DV 5).

Sta scritto nei profeti… Giovanni fonde in un unico testo Is 54,13 e Ger 31,34. Il testo di Isaìa dice: tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore. Giovanni omette la parola figli per cui il testo ha un’applicazione universale, che va oltre i confini d’Israele. Questa tesi è avvalorata da Ger 31,34. È una promessa profetica per il tempo escatologico.

In queste parole di Gesù allora brilla una verità inconfutabile: solo chi ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui si può porre alla sequela del Cristo perché la sequela non è una conquista, ma una grazia.

Avendo cercato di allargare il cuore dei Giudei entro gli ampi spazi della fede, Gesù ritorna sul tema del pane della vita. E mostra ancora una volta se stesso come il pane vivo, disceso dal cielo.

Solo questo pane preserva l’uomo dalla morte e lo introduce nella vera vita: Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Il termine carne (sàrx) che nella Bibbia indica la realtà fragile della persona umana, ora, riferita al corpo di Cristo, rimanda sia al mistero dell’Incarnazione, sia alla Passione e alla morte sacrificale per la vita del mondo, cioè per tutti: «Gesù è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,1-2).

«Le espressioni “per la vita del mondo”, “per voi”, alludono al valore re-dentivo dell’immolazione di Cristo sulla Croce. Già in alcuni sacrifici del-l’AT, che erano tipo di quello del Signore, una parte della carne offerta veniva successivamente distribuita come cibo e significava la partecipazione dei presenti al rito sacro [cfr. Es 11,3-4]. Parimenti, quando ci comunichiamo, diveniamo partecipi del sacrificio di Gesù. Perciò durante la liturgia delle Ore nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, la Chiesa canta: “Oh sacra mensa in cui Cristo si fa nostro cibo, si celebra il memoriale della sua Passione, l’anima è colmata di grazia e ci vien dato un pegno della futura gloria”» (La Bibbia di Navarra).

Così si entra nel cuore del mistero dell’Eucaristia.

Il pane eucaristico non è un pane metaforico: il pane che viene donato per la vita eterna è veramente il Corpo e il Sangue del Figlio di Dio. La presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia sorpassa sia la capacità della nostra intelligenza, sia le nostre conoscenze: che «nell’Eucaristia ci sia il vero corpo e sangue di Cristo non si può percepire per mezzo dei sensi e nemmeno per mezzo dell’intelletto, ma lo si sa per fede, in base all’auto-revolissima testimonianza di Dio [….]. Dire che Cristo nell’Eucaristia non c’è veramente, ma c’è per esempio solo in figura o in simbolo, è eresia» (San Tommaso, S. Th., q. 75).

Riflessione

Nessuno può venire a me… – Il cuore del discorso di Cafàrnao è la fede: «una fede esistenziale e profonda che polarizzi tutta la vita del discepolo verso la persona di Gesù. Questa è l’idea fondamentale dell’intero sermone sul pane della vita» (Alberto Panimolle). La fede è tutto nella vita dell’uomo: potenza divina che trasforma ogni cosa, vivifica, soprannaturalizza. Senza la fede siamo perduti, perché essa è «fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1). Senza la fede tutto crolla sotto il peso dell’orgoglio, dell’arroganza, dell’autosufficienza: senza la fede facciamo naufragio (cfr. 1Tm 1,18-19). Credere, infatti, significa trovare «un’ancora che impedisce di scivolare nelle sabbie mobili del dubbio sistematico e del relativismo» (G. Ravasi).

La fede ci fa risiedere, già ora, nel mistero della Trinità, facendoci vivere con gioia ineffabile e trasfigurante questa povera vita terrena: credere è «il modo più concreto e umanamente conveniente di prendersi cura della propria vita e incrementarne la qualità» (Bernardo Commodi).

Nella fede noi siamo partecipi di tutto ciò che Cristo possiede: partecipiamo alla sua giustizia (cfr. Rm 10,4; 1Cor 6,11), partecipiamo alla sua forza che salva e santifica (cfr. Rm 1,16; Ef 2,5). Abbiamo forza nelle tentazioni («chi crederà non vacillerà» Is 28,16; cfr. 1Pt 2,6; 1Gv 5,4). Gustiamo del riposo di Dio (cfr. Eb 4,3), sperimentiamo la dolcezza dell’abban-dono a Dio, dell’appartenere a lui, del sentirsi protetti, difesi e abbracciati dal suo amore materno (cfr. Dt 32,10-11). La fede ci pianta sulla roccia sicura, che è Cristo (cfr. 1Cor 10,5) da cui sgorga l’acqua della vita. Per la fede, edificati «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2,19), troviamo stabilità, sicurezza, protezione e amore. Anche il coraggio di dare la vita per Cristo.

Ma se la fede è il respiro della vita cristiana, non va mai dimenticato che è un dono (2Ts 3,2), ecco perché ogni credente dovrebbe pregare con gli Apostoli: «Signore: accresci in noi la fede!”» (Lc 17,5).

La pagina dei Padri

Solo un cuore che ama può comprendere – Sant’Agostino: “Non mormorate tra voi: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,43-44).

Con queste parole il Signore ci annunzia una grande grazia. Nessuno va a lui se non è attirato.

Non cercare di giudicare chi è che sarà attirato e chi è che non lo sarà, né di stabilire perché uno sarà attirato e un altro non lo sarà, se non vuoi sbagliare.

Accetta queste parole e cerca di capirle. Non sei attratto dal Signore? Prega per esserlo. Cosa veniamo a dire, fratelli? Che se siamo attirati a Cristo, allora crediamo nostro malgrado, cioè è per effetto della costrizione, non per effetto della nostra libera volontà? In verità, si può entrare nella chiesa contro la propria volontà, e, contro la propria volontà si può essere indotti ad avvicinarci all’altare e a ricevere i sacramenti; ma non si può credere contro la propria volontà…

Quando ascolti: «Nessuno viene a me se non è attirato dal Padre», non pensare di essere attirato tuo malgrado. La tua anima è attirata anche dall’amore. Non dobbiamo temere di essere rimproverati da quanti stanno attenti alle parole, ma restano lontanissimi dalla interpretazione delle cose divine, i quali, a proposito di questo passo delle sante Scritture, potrebbero dirci: In qual modo credo di mia volontà se sono attirato da Dio? Io rispondo: Non sei attirato per mezzo della volontà, ma per mezzo della gioia. Che significa essere attirati per mezzo della gioia? “Metti nel Signore la tua gioia, ed egli ti darà ciò che domanda il tuo cuore” (Sal 36,4). Si tratta di una certa qual gioia interiore, cui è nutrimento quel pane celeste.

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