giugno, meditazioni

17 Giugno 2018 – XI del Tempo Ordinario (B)

Dal libro del profeta Ezechièle (17,22-24) – Io innalzo l’albero basso: “Il nuovo ramoscello colto dalla cima del cedro rappresenta un futuro re della casa di Davide (cfr. 2Sam 7,13). Se il cedro è il re di Giuda, allora tutti gli alberi della foresta sono i re delle nazioni circostanti. Essi sapranno che Dio umilia il potente e suscita una nuova potenza dal nulla. Qui Dio innalza un nuovo re d’Israele alla gloria dalla misera condizione in cui Giuda, punito, era caduto” (Nuovo Grande Commentario Biblico).

Dal Salmo 91 (92) – È bello rendere grazie al Signore: «Mentre i peccatori sono come fieno presto appassito, il giusto (il Cristo) fiorirà come palma, con una corona di rami che sale fino al cielo. Non è paragonato solo al tronco della palma: si moltiplica nei suoi rami che col tronco, e, per mezzo di lui, conseguono la salvezza. È paragonato anche al cedro per la stessa ragione: non a un cedro qualsiasi ma a quello del Libano, perché il Libano produce gli alberi più alti di tutti» (Eusebio).

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (5,6-10) – Sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere graditi al Signore: Nei versetti precedenti a questo brano san Paolo utilizzando la metafora della tenda come dimora, fan ben capire tutta la tensione che comporta la vita dell’uomo. Da una parte si disfa il corpo esteriore con il sopraggiungere di sofferenze e malattie, dall’altra parte si affaccia la gloria. Un lotta fra ciò che è visibile e ciò che non lo è. Alla luce di questa consapevolezza, Paolo esorta a lottare con fiducia e coraggio, badando di essere sempre graditi a Lui.

Dal Vangelo secondo Marco (4,26-34) – È il più piccolo di tutti i semi, ma diventa più grande di tutte le piante dell’orto: Nei versetti che precedono la pericope odierna, Gesù racconta e spiega la parabola del seminatore. Ed è ancora la metafora del seme, oggi, ad essere usata da Gesù per far capire come il regno di Dio ha inizio e si diffonde. La descrizione di come un seme cresca e sia pieno di frutti, vuole spingere la riflessione sul fatto che i figli del Regno sono uomini costruttivi, propositivi, capaci di rischio. Credono al futuro e sanno investirvi, senza affanno, le proprie risorse.

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Approfondimento

Aspetti della Parola – A. Feuillet e P. Grelot (Parola di Dio, Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Marietti): La parola di Dio può essere considerata sotto due aspetti, indissociabili ma distinti: rivela ed agisce.

  1. Dio, parlando, rivela – Per mettere il pensiero dell’uomo in comunicazione con il suo proprio pensiero, Dio parla. La sua parola è, di volta in volta, legge e regola di vita, rivelazione del senso delle Cose e degli avvenimenti, promessa ed annunzio del futuro.
  2. a) La concezione della parola divina come legge e regola di vita risale alle stesse origini di Israele. Al tempo dell’alleanza al Sinai, Mosè ha dato al popolo da parte di Dio un codice religioso e morale riassunto in dieci «parole», il Decalogo (Es 20,1-17; Dt 5,6-22; cfr. Es 34,28; Dt 4,13; 10,4). Questa affermazione del Dio unico, legata alla rivelazione delle sue esigenze essenziali, fu uno dei primi elementi che permisero ad Israele di prendere coscienza che «Dio parla». Taluni racconti biblici hanno sottolineato il fatto delineando il quadro del Sinai e mostrando Dio che parla direttamente a tutto Israele dalla nube (cfr. Es 20,1; Dt 4,12); di fatto, altri passi pongono chiaramente in rilievo la funzione mediatrice di Mosè (Es 34,10-28). Ma, ad ogni modo, la legge si impone a titolo di parola divina. Come tale i sapienti ed i salmisti vi videro la sorgente della felicità (Pro 18,13; 16,20; Sal 119).
  3. b) Tuttavia alla legge divina si trova collegata sin dall’origine una rivelazione di Dio e della sua azione in terra: «Io sono Jahve, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto» (Es 20,2). Questa è la certezza essenziale che fonda l’autorità della stessa legge. Se Israele è un popolo monoteista, non è per sapienza umana, ma perché Jahve ha parlato ai suoi padri, poi a Mosè, per farsi conoscere come «l’unico» (Es 3,13-15; cfr. Dt 6,4). Così pure, a mano a mano che la storia si svolge, è la parola del suo Dio ad illuminarlo circa il suo significato nascosto. In ciascuna delle grandi esperienze nazionali essa gli rivela intenzioni segrete (Gs 24,2-13). Neppure questo riconoscere il disegno di Dio negli eventi di questo mondo è di origine umana; deriva dalla conoscenza profetica, prolungata dalla riflessione sapienziale (cfr. Sap 10-19). In breve, deriva dalla parola di Dio.
  4. c) Infine la parola di Dio sa valicare i limiti del tempo per svelare in anticipo il futuro. Passo passo essa illumina Israele sulla prossima tappa del disegno di Dio (Gen 15,13-16; Es 3,7-10; Gs 1,1-5; ecc.). Infine, al di là di un futuro immediato che si tinge di foschi colori, essa rivela ciò che avverrà «negli ultimi tempi», quando Dio realizzerà pienamente il suo disegno: questo è tutto l’oggetto dell’escatologia profetica-Legge, rivelazione, promessa: questi tre aspetti della parola divina si accompagnano e si condizionano reciprocamente lungo tutto il VT. Esigono da parte dell’uo-mo una risposta […].
  5. Dio, parlando, agisce – Tuttavia la parola di Dio non è soltanto un messaggio dottrinale rivolto agli uomini. È una realtà dinamica, una potenza che opera infallibilmente gli effetti intesi da Dio (Gs 21,45; 23,14; 1Re 8,56). Dio la manda come un messaggero vivente (Is 9,7; Sal 107,20); essa corre (147,5); essa piomba in qualche modo sugli uomini (Zc 1,6). Dio veglia su di essa per compierla (Ger 1,12), e di fatto essa produce sempre ciò che annunzia (Nm 23,19; Is 55,10s), sia che si tratti degli avvenimenti della storia, delle realtà cosmiche oppure del termine del disegno di salvezza.
  6. a) Questa concezione dinamica della parola non era ignota all’Oriente antico, che l’intendeva in un modo quasi magico. Nel VT essa è stata applicata anzitutto alla parola profetica: quando Dio rivela in anticipo i suoi disegni, è certo che poi li realizzerà. La storia è un compimento delle sue promesse (cfr. Dt 9,5; 1Re 2,4; Ger 11,5); gli eventi rispondono alla sua chiamata (Is 44,7s). Al momento dell’esodo, «egli disse» e gli insetti vennero (Sal 105,31.34). Alla fine della cattività di Babilonia, «egli dice di Gerusalemme: “Sia abitata!”, e dice di Ciro: “Mio pastore”… » (Is 44, 26.28).
  7. b) Ma se così è della storia, come dubitare che la creazione intera obbedisca anch’essa alla parola di Dio? Di fatto, proprio sotto la forma di una parola conviene immaginare l’atto originale del creatore: «Disse, e quello fu» (Sal 33,6-9; cfr. Gen 1; Lm 3,37; Gdt 16,14; Sap 9,1; Eccli 42,15). Da allora questa stessa parola rimane attiva nell’universo, governando gli astri (Is 40,26), le acque dell’abisso (Is 44,27) e l’insieme dei fenomeni della natura (Sal 107,25; 147,15-18; Gb 37,54; Eccli 39,17.31). Più dei nutrimenti terreni, essa, come una manna celeste, conserva in vita gli uomini che credono in Dio (Sap 16,26; cfr. Dt 8,3 LXX).
  8. c) Una simile efficacia, constatabile sia nella creazione che nella storia, non può mancare agli oracoli di salvezza che concernono gli «ultimi tempi»; di fatto, «la parola di Dio rimane per sempre» (Is 40,8). Per questo, da un secolo all’altro, il popolo di Dio raccoglie devotamente tutte queste parole che gli descrivono in anticipo il suo futuro. Nessun evento ne esaurisce il significato, finché non sono giunti gli ultimi tempi (cfr. Dn 9).

Commento al Vangelo

Così è il regno di Dio… – Il brano evangelico è  composto da due parabole, la parabola del seme che spunta da solo (vv. 26-29) e la parabola del granello di senapa (vv. 30-34), ed entrambe vogliono illustrare la dinamicità del regno Dio. La prima parabola è “propria di Marco, almeno in questa forma, Matteo ne riprende alcuni elementi nella parabola del buon grano e della zizzania [Mt 13,24-30]” (Jean Radermakers). La seconda, in comune con Matteo e Luca (Mt 13,31-32; Lc 13,18-19), sviluppa un contrasto tra due situazioni antitetiche. Vengono contrapposte la piccolezza del seme, un granello di senapa che é il più piccolo di tutti i semi, e le notevoli dimensioni della pianta che da esso nasce, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto.

Certamente il racconto non è un’iperbole se si pensa che la pianta di senapa sul lago di Tiberiade può raggiungere sino a tre metri di altezza e sulla quale possono posarsi e nidificare gli uccelli (cfr. Sal 79 [80],8ss; 103 [104],12).

La conclusione (vv. 33-34) non dà una spiegazione delle due parabole, è rimasta nella penna di Marco, ma non è difficile carpirla. In sostanza, anche se il regno, per mezzo della predicazione di Gesù, ha un inizio modestissimo, il suo sviluppo sarà sicuramente grandioso e accoglierà gente da ogni provenienza. É un parola incoraggiante per i discepoli che, sempre tentati di agire in prima persona e di volere risultati immediati, sono spesso demotivati dagli insuccessi sempre a portata di mano.

Così è il regno di Dio: la prima parabola vuol suggerire come il regno di Dio, non essendo un’invenzione umana, ha una sua vitalità e potenza intrinseca propria. L’uomo che getta il seme è il Cristo, e il seme perché porti frutto non ha bisogno di energie e apporti esterni, perché il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, in questo modo viene illustrato l’automatismo del regno.

Se praticamente la crescita del seme abbisogna anche dell’apporto umano (cfr. Mt 13,4-23; Mc1,15), sostanzialmente Gesù vuole affermare che il regno di Dio è il risultato del suo amore e della sua iniziativa e non sono gli uomini che danno forza al seme, cioè alla Parola, e nemmeno le loro resistenze sono in grado di trattenerlo o soffocarlo: il discepolo, perciò, deve spogliarsi di ogni forma di inutili ansietà e di pruriginose velleità: “Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere” (1Cor 3,5-7). In poche parole questo è il messaggio racchiuso nell’insegnamento di Gesù.

La parabola del granello di senape ha come cornice il contrasto tra la piccolezza del punto di partenza e la grandezza del punto di arrivo. La storia della Chiesa conferma tutto questo, infatti “storicamente si può costatare come l’esiguo gruppo iniziale dei discepoli sia venuto crescendo ai primordi della Chiesa [cfr. At 2,47; 6,7; 12,34], diventando sempre più numeroso nei secoli fino a costituire una moltitudine immensa che nessuno può contare [Ap 7,9]” (La Bibbia di Navarra, I quattro Vangeli).

Il v. 32 vuole sottolineare la grandezza e l’universalità del Regno (cfr. Ez 17,23; 31,6; Dn 4,17-19), mentre il v. 33 mette in evidenza l’adattarsi di Gesù alle capacità intellettive dell’uditorio. È Dio “che dà la comprensione, secondo l’ascolto di ognuno. Egli ha manifestato che in Gesù l’acceca-mento può essere superato; la pazienza di Dio [che non violenta le coscienze ma rispetta gli itinerari dei singoli] e la fede che cresce – non si sa come – nel cuore dei discepoli, ne sono i segni. La venuta di Gesù determina, nel terreno delle relazioni umane e nelle realtà della vita quotidiana, un dinamismo di vita sempre all’opera” (Jean Radermakers).

Infine, il v. 34 sottolinea l’attenzione di Gesù nel formare i Dodici che avrebbero dovuto continuare il suo ministero apostolico. Ma è anche un tratto della familiarità e di confidenza che si era istaurato tra il Maestro e i suoi discepoli.

Riflessione

Dorma o vegli, di notte o di giorno – Le due parabole marciane certamente non vogliono invogliare il discepolo al dolce dormire, vogliono invece suggerire alcune verità di capitale importanza per la vita e la catechesi cristiana.

Innanzi tutto la prima verità: tutti gli uomini sono chiamati ad entrare nel Regno di Dio (1Tm 2,4).

Non vi sono dunque steccati, il discepolo-missionario sa di poter contare sulla presenza e sui prodigi del Risorto che accompagnano e confermano la seminagione (Mc 16,20), ma sa anche che tale semina va fatta in tutti i campi del mondo, la Buona Novella è per tutti gli uomini.

Questo in definitiva l’insegnamento della parabola del seme che cresce da solo, così come suggerisce il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Tutti gli uomini sono chiamati ad entrare nel Regno. Annunziato dapprima ai figli di Israele, questo Regno messianico è destinato ad accogliere gli uomini di tutte le nazioni. Per accedervi, è necessario accogliere la Parola di Gesù. La Parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato in un campo: quelli che l’ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il Regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto” (543).

Ma se il Regno di Dio cresce e si rafforza per una potenza intrinseca, per proprio dinamismo divino, non si può ritenere inutile l’apporto umano. San Paolo era convinto dell’una e dell’altra cosa. Ai cristiani di Roma confessa di volere andare in Spagna, l’estremo confine del mondo allora conosciuto (Rm 15,24.28), e poi fa loro questa considerazione: “Se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso. Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!” (Rm 10,9-15).

Il secondo suggerimento accusa la prolissità che gronda, come abbondante grasso, certa predicazione cristiana. Gesù ha usato un linguaggio semplice, prendendo esempio dal Padre suo che, tra i tanti modi di comunicare, ama parlare all’uomo anche attraverso il linguaggio semplice della “creazione visibile”. Infatti, l’universo “materiale si presenta all’in-telligenza dell’uomo perché vi legga le tracce del suo Creatore. La luce e la notte, il vento e il fuoco, l’acqua e la terra, l’albero e i frutti parlano di Dio, simboleggiano ad un tempo la sua grandezza e la sua vicinanza” (CCC 1147).

Diceva san Girolamo, è “proprio da ignoranti suscitare l’ammirazione verso di sé da parte del popolo incompetente, con artifici di parola e col parlare di corsa. Solo una faccia di legno può mettersi a spiegare ciò che non sa, e avendo indotto gli altri a crederci, autoconvincersi poi di essere un pozzo di scienza… Non c’è cosa più facile che incantare il basso popolino privo di istruzione, con un discorso retorico, dato che esso, quanto meno capisce, tanto più ne è ammirato”. Raggiungere il cuore dell’uomo e immergerlo nella luce della Sapienza divina è un’arte e la si può apprendere solo alla scuola del Maestro divino. Il resto poi crescerà da solo!

La pagina dei Padri

I tempi della semina e i tempi del bene – San Gregorio Magno: Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cfr. Mc 4,26s).

L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.

Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga… Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!

 

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